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ETNOBOTANICA ETNEA – LE PIANTE SELVATICHE E L’UOMO

Il quotidiano “La Sicilia” di giovedì 2 febbraio 2017, a pag. 17, pubblica la recensione a firma di chi scrive del libro del prof. Salvatore Arcidiacono “Etnobotanica Etnea. Le piante selvatiche e l’uomo”, 150 pp, Editrice Danaus, € 20,00. Per facilitarne la lettura, ecco qui di seguito il testo integrale della recensione, che per motivi di spazio è stato necessario ridurre.
Buona lettura!
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L’uomo ha sempre avuto uno stretto legame con le piante selvatiche. Sono rapporti che riguardano il loro uso nella medicina e veterinaria popolare (fitoterapia), artigianato, agricoltura, pastorizia, alimentazione (fitoalimurgia), cosmesi, liquoristica, senza dimenticare il loro impiego nelle feste, nei riti religiosi e magici, nei giochi, nelle credenze, nei proverbi e nei modi di dire popolari. Per la verità, tali relazioni si sono affievolite con l’avvento della civiltà delle macchine e della plastica, ma negli ultimi anni si registra una chiara inversione di tendenza, grazie al fatto che le conoscenze etnobotaniche stanno riscuotendo un notevole interesse pure tra il grande pubblico.
Per citare un esempio, sempre più persone desiderano saperne di più sulle verdure spontanee commestibili, su quelle erbe selvatiche che in un passato non molto remoto, per i siciliani, costituirono una fondamentale risorsa alimentare. Nella stagione propizia era consuetudine, quasi quotidiana, andare per erbe (“a cogghiri viddura”, per usare un’espressione dialettale siciliana). È vero che tale usanza alimentare derivava da uno stato di necessità sia per la cronica indigenza delle classi meno abbienti, ma altrettanto incontrovertibile che, oggi, la fitoalimurgia non ha più questa funzione sociale sia per l’accresciuto benessere economico e che sono sempre più numerose le persone che stanno riprendendo ad andare per verdure, da cui ricavano due indiscutibili benefici: un’alternativa all’usuale menù; la possibilità di fare lunghe e salutari passeggiate in campagna. Chi pratica questo passatempo dovrebbe, però, avere precise competenze sulle piante che si appresta a raccogliere, perché tutti possono andare a cogliere verdure selvatiche commestibili, ma non tutti sono in grado distinguere le piante mangerecce da quelle velenose, la cui ingestione costringe spesso a far ricorso alle cure ospedaliere se non, nei casi più gravi, di finire al camposanto.
E, ancora, si pensi agli usi familiari di piante come l’asparago selvatico (“sparacogna”) utilizzato nelle “cone” e nei presepi; all’uso della canna comune per la realizzazione di manufatti come panieri, ceste, fiscelle, cofani (“cufini”), i quali, soppiantati dal prepotente avvento della plastica, stanno tornando di nuovo in auge.
Nel sempre più vasto panorama editoriale riguardante l’Etnobotanica fa capolino il nuovo pregevole libro “Etnobotanica Etnea. Le piante selvatiche e l’uomo” del prof. Salvatore Arcidiacono, stampato dall’Ente Fauna Siciliana per i tipi della casa editrice Danaus di Palermo. Esperto etnobotanico, l’Autore ha acquisito in campagna una straordinaria mole d’informazioni e conoscenze sulle piante selvatiche che hanno o avevano un rapporto diretto con l’uomo attingendo alla fonte, vale a dire intervistando i contadini, i pastori, gli anziani incontrati in campagna o nei paesi dell’area della provincia di Catania che si estende su suoli di natura vulcanica.
Arcidiacono descrive con linguaggio semplice ma senza sacrificare il rigore scientifico quarantaquattro specie di piante selvatiche che hanno rapporti pratici con l’uomo nella vita quotidiana, spaziando da quelle su cui circolano credenze popolari prive di fondamento scientifico, come le orazioni attorno all’Artemisia (“erba ianca”) che avrebbero effetto vermifugo, a quelle utilizzate in cucina come la Costolina, nota nel territorio etneo col nome di “Cosc’i vecchia”, gustosa e molto apprezzata verdura selvatica, oppure come il Guado (“Cavulucarammu”), broccoletti selvatici un tempo utilizzati per colorare i vestiti, oggi raccolti a scopo alimentare, di cui si raccolgono le infiorescenze (i “giummi”) per essere mangiati lessi e conditi con olio e limone.
Il lettore troverà pure notizie sulla Ferula, i cui fusti sono raccolti nel periodo estivo e dopo l’essiccatura sono ancora oggi usati per farne sgabelli rustici, i famosi “furrizzi”, mentre un tempo erano ricercati per realizzare le arnie (“fascetru”) oppure per la “menzatagghia”, una sorta di rudimentale registro mastro fiduciario ottenuta spaccando longitudinalmente il fusto in modo da ottenere due parti uguali, sulle quali s’incideva una tacca (“tagghia”) sull’una e sull’altra parte in modo che alla fine coincidessero facendole combaciare.
E, ancora, non potevano mancare due regine delle verdure selvatiche mangerecce del territorio etneo: i cavuliceddi o caliceddi, protagonisti di una tradizionale sagra paesana a Ragalna, dove si gustano con la salsiccia e il vino; e l’Urrania (Borragine), ottima sia lessata e mangiata con olio e limone oppure col riso con caciocavallo tagliato a pezzetti (“paparotta”).
Non meno importante, infine, la descrizione di piante selvatiche utilizzate per realizzare trastulli infantili, quali l’aquilone con la Canna domestica, gli scoppiettii (“scattioli”) con il calice ovoidale dello Strigolo, la trottola (“tuppetturu”) con il tronco del Bagolaro (“Minicuccu”), la cerbottana fatta con un internodo di canna per “sparare” come proiettili i semi dei frutti del minicuccu, e numerosi altri ancora. In questo bel volume, Salvatore Arcidiacono conduce il lettore alla riscoperta di un mondo che si credeva fosse estinto con l’avanzare della civiltà dei computer, dove tutto è virtuale. Leggerlo, per i più giovani sarà come esplorare un universo sconosciuto, qual è, appunto, quello delle piante selvatiche presenti nel territorio etneo, mentre per i meno giovani sarà come una rivisitazione di un mondo ormai quasi tutto scomparso, ma che non sarà mai dimenticato grazie al contributo di studiosi seri e qualificati come Salvatore Arcidiacono.
GIUSEPPE SPERLINGA

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